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Il punto di riferimento

di Luigi Del Favero

Sbucando nell’ampia valle del centro Cadore all’uscita dal tunnel ho avuto occhi solo per le Marmarole. Certamente ho continuato a guardare pure la strada, ma domenica mattina il traffico era scarso ed era quindi consentito agli occhi di innalzarsi verso le montagne che ricevevano in pieno il sole sorto da poco. La pioggia dei giorni precedenti aveva lavato per bene quelle rocce così movimentate che si mostravano in tutta la loro bellezza: non un massiccio unico, ma tante crode frastagliate, diverse, scolpite fantasiosamente. Pur sapendo che quella luminosità speciale è donata dall’atmosfera limpida, questa sì purificata dalla pioggia, continuo ad inseguire l’immaginazione popolare che pensa alle montagne lavate e quindi più belle e addirittura più vicine. L’occhio ha notato un tale che stava fotografando la valle dalla parte opposta, suscitando l’interrogativo su cosa ci potesse essere di tanto attraente da quel lato. Forse vuol documentare lo stato deplorevole del lago svuotato che intristisce la valle – ho pensato – correggendomi subito perché tutta la parte bassa della valle era coperta dalla nebbia. Domande e ragionamenti che messi sulla carta sembrano laboriosi e lunghi, nella realtà attraversano la mente nello spazio di pochi secondi, con la velocità del lampo. Rimanendo alla guida e rallentando la corsa, è stato facile anche per me guardare in basso alla distesa di nuvole arruffate e diseguali che arrivava in fondo, laddove la valle del Piave si restringe. «Non è nebbia; sono nuvole basse che scompariranno in breve tempo», ho concluso continuando a guardarle perché, viste da sopra, erano singolari. Senza l’ardire di arrivare su fino a Grea che già riceveva il sole, coprivano tutti gli abitati. Un inesperto non avrebbe potuto immaginare il susseguirsi dei paesi perché tutto era indistinto. Con un’eccezione: spuntava dalle nuvole e si distingueva chiaramente la cima del campanile di Domegge. Immaginandomi nella condizione di chi non avesse mai visto quei posti, ho individuato nel campanile un punto sicuro di riferimento. Il campanile è alto ed anche la chiesa di cui è compagno deve essere grande e il paese che gli cresce attorno deve essere adeguato.
Si sa che non c’è paese al mondo popolato da campanili quanto l’Italia, terra dei mille e mille campanili. Che non servono solo a collocare in alto le campane affinché da lassù possano far giungere lontano la voce. Servono anche per dare identità ad un paese, ad un borgo, ad un’intera città. Spesso basta la raffigurazione del campanile per indicare un luogo. Quello di Giotto è simbolo di Firenze, quello di San Marco lo è di Venezia, quello, meno noto ma forse più bello, dello Juvara, è il simbolo di Belluno. Senza dimenticare quello di Cortina, famoso in tutto il mondo quanto le Tofane che gli fanno da sfondo. Ma ogni paese è orgoglioso del proprio campanile che potrebbe raccontare storie di fatiche e generosità incredibili ed anche di vere gare ingaggiate tra paesi per costruire il campanile più bello e soprattutto più alto. Questo manufatto dà il nome anche alla brutta malattia del campanilismo che è la degenerazione del gusto sano per l’appartenenza e l’identità.
Bucando le nuvole basse di un mattino domenicale il campanile di Domegge assolveva la funzione di essere un riferimento in doppio modo: quello simbolico e quello fisico: non vedendo altro, quel punto forniva l’orientamento. È cosa che accade ogni notte nelle nostre vallate dove la quasi totalità dei campanili è illuminata. Purtroppo dopo lo stupore iniziale che ha forse accompagnato una festa per l’accensione, non ci badiamo più. E così ci priviamo della piccola emozione di spettacoli semplici che quanti vengono da lontano apprezzano più di noi, ammirando quelle sentinelle immobili che vegliano con qualsiasi tempo e in qualsiasi notte. In verità neppure alla voce che proviene dai campanili diamo molto ascolto, eccetto quando la voce si fa mesta e annuncia una morte, rinnovando l’antica domanda: «Per chi suona la campana?». Per tacere dei tentativi di zittire addirittura la voce del campanile imputato di disturbo della quiete pubblica. Cosa ci direbbero le rondini che amano volteggiare instancabilmente attorno ai campanili, con autentica predilezione, e cosa racconterebbe quel partigiano o quel soldato americano nascosto dal parroco per giorni e giorni proprio sul campanile, che si sentiva protetto dal suono delle campane perché coprivano il rumore dei suoi spostamenti? Non occorre sapere dove l’episodio è accaduto perché si è ripetuto in molti paesi. Quanto è prezioso quel punto di riferimento che serve agli occhi e all’orecchio. I campanili sono utili anche per le carte militari. Da parroco, ho saputo da studiosi tedeschi che proprio i campanili hanno importanza per fare la mappa dei terremoti. Servono soprattutto all’anima. Per ricordarmene ho avuto bisogno che un campanile spuntasse dalle nuvole che avevano invaso tutto il fondo valle. «Io ci sono sempre», mi ha detto quando sono ripassato in uno splendido pomeriggio autunnale.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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