Sulla soglia del libro autobiografico di Antonio Chiades, uscito di recente nella accurata stampa di Piazza editore, troviamo la voce di Vittorino Andreoli, che ha scritto un incredibile elogio della vecchiaia in forma di Lettera di un vecchio a un suo simile – voce fuori dal coro nel nostro tempo, parola di psichiatra, con un prezioso patrimonio di umanità fragile, alla quale ha dedicato il lavoro e la vita, invito a sentirsi parte di una lunga storia che affonda nell’ignoto.
Nella nota introduttiva, infatti, proprio riallacciandosi all’insolito esergo, l’autore espone il suo modo di entrare in punta di piedi, delicatamente, nel mondo degli avi, accompagnandone la riscoperta con lo stesso senso di pudore e di compassione usato nella professione giornalistica e in particolare nelle numerose biografie che spaziano dagli artisti come Tiziano fino ai santi come santa Maria Bertilla. Ascoltiamo le sue parole nel primo capitolo intitolato Nel succedersi delle generazioni:
«E ho rivissuto il mio orizzonte familiare in un’ottica che amo definire di eternità, nella convinzione che ciascuna esistenza si collochi nel mistero dell’essere al mondo in quella dimensione che nella tradizione cristiana viene definita “comunione dei santi” e che, nelle culture più lontane in ambito geografico e temporale, si colloca, pur con significative e variegate diversità, come culto degli antenati». Segue la citazione di Simone Weil, fatta da Camus quando ricevette il premio Nobel per la letteratura (1957): «A volte i morti sono più vicini a noi dei vivi».
Con commozione sento vibrare la voce lieve e luminosa del poeta che ho imparato a riconoscere nelle sue raccolte di versi e immagino paesaggi di montagne aspre, sorgenti e acque che scorrono ovunque verso l’infinito del mare. Quanta umile profondità ci vuole per scandagliare il passato con pazienti e lunghe ricerche, affidate non solo agli archivi e alle testimonianze dei luoghi, ma anche e soprattutto alle relazioni. Qui è attraverso la cugina Annalisa che, a partire da un incontro casuale avvenuto nel 1964, l’autore risale alla famiglia patriarcale dei bisnonni paterni. E gradualmente, più tardi anche con il contributo del figlio di Annalisa, Arno, si dipana il racconto, seguendo un albero genealogico fiorito di scoperte, sussulti del cuore, esilio e persecuzioni, due guerre mondiali, dolori a lungo sepolti e alla fine in qualche modo redenti attraverso la scrittura. E lo scenario, pur sfiorando confini di altri mondi e tempi, ha come centro Gorizia, destinata a diventare per l’autore la città dell’anima, come la definisce Maria Giacin nella sua ispirata presentazione del libro.
Noi lettori, magari più informati sulla vicina Trieste, entriamo nella città di confine dominata dell’imponente castello, sede di dinastie reali francesi e austroungariche e luogo di villeggiatura immerso in un paesaggio suggestivo e verdeggiante. Immagine iconica di bellezza e protezione che resiste, attraversata da continue metamorfosi, ancora oggi centro pulsante di iniziative, convegni, esposizioni importanti, come quelle riservate alla musica. E a guardare con attenzione, non trascurando le junghiane sincronie, quale folla di personaggi accompagna le vicende familiari della piccola storia dei Chiades: dal giovane Michelstaedter, morto suicida a soli 23 anni, a Biagio –Marin, alla sorella di Quasimodo sposa di Vittorini, a Quirino Principe e tanti altri… Un bellissimo viaggio, dunque, quasi pellegrinaggio, alla ricerca di una identità che si apre e include tutti nello sguardo sapienziale di Antonio, nella sua scrittura di meditazione che riesce ad assumere tante diverse sfaccettature ed è sempre capace di stupirci e di prenderci per mano…
Poche le immagini, nell’economia del testo: i quattro fratelli, le loro donne, il sigillo e il registro del matrimonio del bisnonno, con il nome Blasius Zadhesh. Vecchie foto rivelatrici, le definisce Arno Scholz, che per primo aveva sentito il bisogno di raccoglierle in un album di famiglia.
Immagini usate con parsimonia dall’autore sia per la reale rarità sia per scelta, credo, di chi si posa su di esse con la l’originalità di un tocco pittorico e poetico: parole centellinate per cercare di sfiorare l’ineffabile che ogni vita porta con sé, soprattutto la vita di chi viene da una lontananza che si perde nel tempo, e suggerire chiaroscuri e impronte di interiorità, dettagli come simboli…
Di nuovo ascoltiamo la voce di Antonio nel finale in musica della storia avvincente che ci ha narrato: «In una visione più ampia e articolata della realtà, mi sembra che anche le piccole vicende degli uomini che sono stati i miei antenati, siano andate stemperandosi in un’accettazione magari faticosa, ma a volte perfino sorridente della realtà, lieve come il lamento dell’armonica a bocca del suonatore incontrato con mia moglie Maria una sera, per caso, durante la mia prima conoscenza della città, unica e inimitabile».
Maria Grazia Maiorino
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