Ragazzi ossidati dal “malessere del benessere”, affettivamente disidratati, bramosi di oggetti transizionali effimeri, dalla gestualità “guappa”, dalla violenza verbale che diventa vendicativa autoaffermazione di un sé sociale. Vagano in assetto da guerriglia nel centro cittadino, sugli autobus, nei bar eletti a ritrovi estemporanei di un concentrato di chiasso e ormoni, esternando reattività incompresa, indossando la divisa conformista del rapper anticonformista, ricercando l’adrenalina del conflitto con lo sguardo collettivo protervo rivolto all’estraneo, preferibilmente adulto, meglio se portatore sano di quella buona educazione sociale impastata di pudore e senso del decoro.
Ne intuisci, nella postura e nella mimica facciale, l’emergenza di una sfida, l’urgenza di affermare una punteggiatura senza dialogo, l’ansia di conferme cristallizzate da video infinitamente rivedibili, che propagano a testimoni invisibili, l’eco di un movimento potente. Preferibilmente contro.
Manca la mentalizzazione, dicono i sociologi, si è perso il rispetto per l’altro, affermano i perbenisti, è tutta colpa del web, postulano gli educatori. Assistiamo impotenti all’epifenomeno di una devianza sociale connessa al rapido cambiamento dei ruoli familiari? Si è forse sbriciolata la simmetria relazionale genitori-figli, non comprendiamo più i loro bisogni perché non riusciamo a specchiarci nella loro insoddisfazione?
Qualcuno potrebbe correggere il tiro: non “i nostri figli”, i loro figli. I figli di un’ondata migrante che è già storia e non più cronaca, che depositano ai piedi delle piazze educate, delle stazioni ferroviarie assonnate, delle sagre fino a ieri di innocuo folklore, ai piedi di questa cittadina alpina assennata e composta, il grido sguaiato di una giovinezza armata di coltello e di smartphone. L’innesto mal sopportato, che lo sguardo diffidente e opaco del bellunese da dieci generazioni, ha bollato come “comunque, foresto”, si vendica a morsi, vandalizza gli autobus, fruga sotto le gonne di ragazzine impotenti, accerchia e colpisce l’adulto che rimprovera indignato, a voce alta. La vergogna sociale, che la riprovazione per le cattive maniere innescava un tempo, non esiste più; il freno a mano di una formazione per limiti e moniti non esiste più; il senso di inadeguatezza che intimidiva l’acerbo al cospetto del saputo, l’esitazione impacciata del ragazzino al cospetto dell’adulto, non esiste più.
Però quando li fermiamo, li identifichiamo, attendiamo pazienti che genitori trasognati, spesso dalla lacrima e dal ceffone facile, vengano a riprenderseli dopo avere firmato verbali che neppure leggono, come non leggono i sintomi di un malessere familiare, non consegniamo solo Mohammed, ma anche Mattia, non solo Fatima, ma anche Alice. Le mani che firmano verbali, che si posano pesanti su spalle già troppo tatuate, possono essere con le unghie nere di fatica e ruvide di calli, ma anche curate e lucidate di gioielli come i cofani dei loro Suv. Spesso sono mani latitanti nel gesto d’amore, non ne hanno il tempo, ne hanno perso il modo. Siamo un paese che gesticola di continuo, ma queste mani cosa sono riuscite a spiegare? Da cosa si sentano esclusi questi ragazzi, da quale gioco di società li stiamo tenendo lontani, nessuno è in grado di dirlo oggi; di certo l’abuso di alcol e stupefacenti, la dipendenza dai social media, l’incapacità di gestire la rabbia, sono tratti sociali disfunzionali che appartengono non solo a loro. Noi ci siamo affacciati al mondo con gli anticorpi di una crescita maturata nel confine di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Perché la distanza fra il bene e il male, fra quello che si può fare e quello che è vietato, l’abbiamo appresa e fatta nostra prima di questo tempo, prima dell’alluvionale percezione che si può avere tutto e subito; prima dell’invincibile illusione collettiva che si può avere tutto senza merito, senza costo, senza sforzo, senza consenso altrui. Adesso, nell’era di Tiktok, osserviamo disorientati queste giovani faine che rappresentano un pericolo per se stessi e per gli altri, anaffettivi consumatori di attimi trasgressivi, disposti senza esitazione né ideologia ad affrontare il più debole con la forza e l’irresponsabilità del branco, veloci e desensibilizzati nel rapinare scarpe, cellulari, quattro spicci e le troppe aspettative ottimistiche di chi li ha generati.
Tragicamente inconsapevoli, agili nell’affondare una lama, nel rovinare una vita, nel negare valore alla propria.
Roberta Gallego
Magistrato
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1 commento
Giuseppe
Che disastro! Ma come uscirne?