La tempesta Vaia è stato un evento che ha cambiato profondamente il paesaggio di alcuni territori. Ma anche il modo di pensare la montagna per chi la abita. Il bosco, che da sempre ha rappresentato per la popolazione bellunese un elemento di appartenenza a cui sono legati saperi e pratiche, è stato messo a dura prova, lasciando dietro di sé una scia di distruzione e di sfide da affrontare. Tuttavia, oltre ai danni materiali, l’evento che ha colpito le nostre montagne nell’ottobre del 2018, causando lo schianto di milioni d’alberi, frane e smottamenti, ha avuto un impatto profondo a livello sociale e psicologico. La tempesta è diventata un evento non evitabile nella narrazione locale, un “lutto” che ha unito le persone nella condivisione del dolore e della perdita, ma anche nella speranza e nella resilienza.
La rievocazione di quei momenti di paura e impotenza ha stimolato una riflessione più ampia sul rapporto tra l’uomo e la natura, portando a una nuova consapevolezza riguardo la fragilità del territorio, l’importanza della sua cura e la relazione tra questo disastro ambientale e la crisi climatica globale. La perdita di questi organismi viventi ha colpito l’immaginario collettivo, generando spaesamento e riflessioni sulla diversità di valori attribuiti ai boschi, alle alberate e ai singoli alberi. Ha messo anche in luce le differenze d’impatto sul territorio e di soluzioni adottate per reagire alla devastazione tra aree colpite.
Ma se Vaia ha evidenziato la fragilità e i problemi della montagna, al tempo stesso, le comunità hanno avuto la percezione che le trasformazioni radicali di alcuni paesaggi possono essere un’opportunità per ripensare al futuro di questi territori. Le dinamiche di appaesamento successive alla tempesta, fenomeni dinamici e quindi ancora in atto, hanno accelerato, infatti, un nuovo pensiero e la definizione di strategie innovative per resistere in un ambiente montano sottoposto pesantemente al rapido cambiamento climatico.
I danni provocati dalla tempesta, sia a livello economico che sociale, pongono nuovi interrogativi relativi al ripristino della vegetazione. Davvero vogliamo recuperare il paesaggio di un tempo? E quale? Quello della montagna «intermedia» che ha conosciuto una forte crescita demografica nel secolo XIX o quello delle coltivazioni secolari dei boschi di conifere? Vogliamo un bosco che soffochi gli insediamenti, che chiuda i sentieri, che modifichi i micro-climi, che impedisca la frequentazione dei luoghi, diventando l’habitat ideale per animali selvatici con i quali dobbiamo imparare a convivere?
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1 commento
Giuseppe
Niente animali selvatici! Niente lupi e nessun orso!