Cosa c’azzecca Marylin Monroe con il senso della rinuncia potrebbe favorire una risposta secca quanto univoca, forse anche sarcastica: nulla, c’azzecca nulla! Non è propriamente così in realtà perché l’indimenticata diva di Hollywood un giorno ebbe a dire che “arrendersi non significa sempre essere deboli, a volte significa essere forti abbastanza da lasciar perdere”, cioè rinunciare o saper rinunciare che è un processo ancora più meditato e frutto di un percorso.
In questo specifico contesto, dobbiamo però domandarci in modo preliminare se siamo tutti allineati nel comprendere il reale significato di “senso” che, in relazione alla montagna, dovrebbe tradursi più propriamente in una fase iniziale come “ragione” della rinuncia, alla quale poi attribuirne per l’appunto quello di maturato senso.
I dizionari ci dicono che il termine sènso s. m. (lat. sēnsus-us, der. di sentire «percepire», part. pass. sensus), genericamente, è la facoltà di ricevere impressioni da stimoli esterni o interni (affine quindi al concetto di sensibilità). Ci dicono, inoltre, che può essere anche assimilato alla capacità di sentire o percepire, in quanto questa facoltà presuppone la capacità di giudicare tra ciò che reale e ciò che non lo è, tra il conveniente e lo sconveniente, quindi, per stretta analogia, anche tra il rischioso/pericoloso e ciò che non lo è affatto.
D’accordo, ci siamo, ma quando ho attivato questo senso cosa devo fare? Quale è il momento per rinunciare? Approfittiamo di un excursus che non è così lezioso come può sembrare ad una prima lettura.
Quale potrebbe essere il momento giusto o opportuno ce lo suggeriscono gli antichi greci. È il momento che veniva chiamato καιρός (kairos) e si riferisce alla tipologia di azioni che devono essere compiute “tempestivamente” in quanto non tollerano né il ritardo, né l’anticipo precipitoso, né l’esitazione. La rinuncia, infatti, non va solo annunciata e va via via posposta mentre avanziamo nel nostro percorso, poiché assunta tardivamente come decisione potrebbe risultare tragicamente tardiva.
Il termine sopra proposto, che è in realtà molto sfaccettato nei vari significati autentici, va spesso va a braccetto con un altro concetto tratto dalla mitologia dei greci antichi che, nel nostro ragionamento, ne è pressoché il completamento logico e lo chiamavano μῆτις (metis): è il concetto che indica l’intelligenza vivace, pratica, capace di cogliere gli avvenimenti e di adattarsi alle circostanze e di superare le avversità.
E’ cioè quella caratteristica dell’individuo che può essere descritta come una sorta di sapere pratico che nei momenti e nelle situazioni imprevedibili, quindi, quelle che risultano parzialmente o molto incerte necessitano invece di un’azione immediata, spesso opposta a quella che si sta facendo, a prescindere sia essa un’arrampicata in parete, una camminata lungo un sentiero, una salita di un pendio innevato o una progressione lungo un pozzo in grotta.
Tradotto in modo brutale significa che, quando è necessario, ci si deve fermare, lasciare perdere l’intenzione e l’obiettivo prefissatoci e cambiare direzione senza perdere tempo, anche se ciò spesso equivale a riconsiderare in toto le proprie decisioni iniziali, cioè in fondo anche sé stessi.
Perché invece è così difficile fermarsi? Perché non si torna sui propri passi? Perché non si rinuncia quando si avvertono o sono manifesti i rischi ed i pericoli sottesi?
Vi sono molteplici risposte che possono essere facilmente ricondotte alla presenza talvolta di un “io” alpinista, scialpinista, escursionista o speleologo che sia, che risulta talvolta un abominevole “io”, perché trova spesso naturale nutrimento dal narcisismo più o meno presente e sviluppato che in noi; perché sono in agguato le trappole euristiche che sono a tutti gli effetti tagliole psicologiche che ci fanno assumere decisioni semplificate e non appropriate; perché ci sono limiti tecnici e di esperienza connaturati in noi; perché il controllo sociale di natura diretta ed indiretta, amplificato anche dal social-media, giudica la mia eventuale rinuncia; perché vi sono altri fattori o il combinato disposto dei precedenti che diventano elementi ostativi affinché l’io sappia dire “no, mi fermo e torno indietro!” oppure “no, cambio percorso.”
Allora, il senso alla rinuncia nell’effettuare una determinata uscita in ambiente è, alla fine, la nostra capacità individuale di misurare le nostre forze rispetto a quell’io impositivo, ma non solo quelle. La rinuncia a proseguire oltre, ad andare avanti ad ogni costo diventa, quindi, un indicatore anche molto preciso in quantosegna il livello della nostra responsabilità, perché contraddistingue paradossalmente la nostra forza di andare in un verso che è esattamente in direzione contraria ed opposta a quanto preventivato al mattino o nel corso dell’attività in montagna. Lo scatto è però prima di tutto quello di natura mentale che determina poi quello fisico e l’azione di metterci in sicurezza.
Questo atteggiamento, che si raggiunge con un percorso mentale che può via via affinarsi nel tempo, si trasforma allora in quella che può essere definita un’arte: l’arte della rinuncia, che è poi la nostra capacità di cogliere il momento giusto, cioè il kairos, nel quale fermarsi con la necessaria azione regolatrice della metis che ci dice dinon andare oltre perché là, proprio là il pericolo o potenziale tale nell’incapacità di verificarlo, si trasformerebbe immediatamente in un incidente, quindi in un possibile infortunio, anche di ordine mortale.
Questa nostra capacità è l’antidoto più efficace per comprimere quell’io che tende ad orientare le nostre scelte e che spesso ci porta a non comprendere quando il semaforo diventa giallo e, nei casi, più estremi anche quando è già addirittura rosso. Allora, se vogliamo abbassare il vostro livello di egotismo, dobbiamo davvero imparare a rinunciare con l’animo sereno, ma anche assolutamente convinto e risoluto nel volerlo fare.
Credo che debba essere però amplificato il portato di questo atteggiamento, ovvero che il sapere rinunciare in montagna non è mai associabile ad una sconfitta o a una resa sulla quale debba pesare il nostro ed altrui giudizio. Ritengo sia, al contrario, la più sofferta delle vittorie e proprio per questo motivo trasformarsi nella più autentica e genuina forma, non dico di trionfo, ma certamente di conquista.
Se siete arrivati sino a qua nella lettura, possiamo coralmente dire che Marylin Monroe un poco di ragione di certo poteva vantarla. Non conosceva di certo la rilevanza del suo principio traslato al mondo della montagna e alle molteplici attività ludico-sportive che in quell’ambiente si possono svolgere, ma di certo aveva compreso che rinunciare era pur sempre un atto per diventare autenticamente “abbastanza forti” e non connotarsi per essere fatti equivalere dei deboli.
Rinunciare diventa allora un atto straordinario, non un ripiegamento, dove l’“io” narciso diventa altro e che, già domani, ci permette di ritornare in montagna, proprio abbiamo saputo esercitare l’umiltà, ovvero effettuare una rinuncia che può averci impedito di metterci in pericolo e, in alcuni casi, addirittura salvare la nostra o la vita altrui.
Grazie Marylin!
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