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martedì 1 Aprile 2025,

La pecora alpagota, pensata dal Creatore per vivere in cima ai monti

A minacciare la specie un'eccessiva attenzione alla carne di agnello e il lupo che ha ripopolato le montagne dell'Alpago

La pecora Alpagota trasforma l’erba dell’Alpago in oro, il suo agnello. Dice così Alessandro Fullin uno dei 20 soci allevatori della cooperativa Fardjma che nel 2020 è riuscita a far promuovere l’agnello dell’Alpago a presidio Slow Food. Un tempo nella conca dell’Alpago la pecora era il sostentamento di quasi tutte le famiglie, grazie alla sua carne, al suo latte e alla sua lana con cui si faceva tutto: dai “calsett” al severo tabarro, indumento del pastore, che arrivò però fino al patriziato veneziano come distinguo d’eleganza.

La pecora Alpagota è una razza ovina autoctona dell’Alpago, con un patrimonio genetico che risale a oltre dieci secoli fa (era sicuramente già presente intorno all’anno 1000). Si tratta di una delle razze ovine più antiche e rappresentative della biodiversità locale. Questa pecora si distingue per la sua frugalità: è in grado di vivere e riprodursi con poche risorse; e il suo sangue ha una variante dell’emoglobina di tipo A, che consente un apporto più rapido di ossigeno, il Creatore l’ha pensata per vivere in cima ai monti. Infatti si tratta di una razza utile a mantenere puliti i prati, soprattutto in quagli anfratti in pendenza dove i macchinari agricoli non possono arrivare. Il mantello è bianco con macchie scure sulla testa e sulle zampe, e gli esemplari adulti raggiungono un peso di circa 50 kg. Alcune femmine presentano caratteristiche peculiari: quelle senza padiglione auricolare vengono chiamate “oche” o “mucche”, mentre quelle con padiglione corto sono dette “monghe”.

Negli anni ’90, la Comunità Europea inserì la pecora Alpagota tra le razze minacciate di estinzione. La riduzione degli allevamenti professionali, l’urbanizzazione e la crescente domanda di altre carni avevano portato a un calo drastico della popolazione ovina. Da quegli anni, che hanno stabilito un punto di non ritorno, sono nate diverse iniziative per il ripopolamento degli ovini autoctoni: per l’Alpago l’ottenimento del Presidio Slow Food fu indubbiamente il primo passo importane. Inoltre, nel 2019, è nato il progetto Sheep Up, promosso dalla Regione Veneto e dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo; un progetto che mira alla valorizzazione della biodiversità ovina veneta e alla creazione di opportunità economiche per gli allevatori. Grazie ai suoi risultati, Sheep Up ha ricevuto un importante riconoscimento nel 2024: il “Public favourite award” del concorso EIP-AGRI Innovation Awards 2024, organizzato dalla Rete europea della PAC (Politica Agricola Comune).

Ad oggi si contano circa 3500 capi divisi tra i territori di Tambre, Puos d’Alpago, Pieve e Chies d’Alpago. E oggi come allora la pastorizia è legata al pascolo e alle malghe, che includono strutture come la casèra per la lavorazione del latte, lo stalòn per il ricovero degli animali e il moltrìn, un recinto in pietra per la mungitura. Nel mese di agosto termina la stagione della pastorizia in altura, si effettua la tosatura e il ricongiungimento delle pecore con i montoni, per poi avviare il periodo delle monte di settembre. La maggior parte degli allevamenti è gestita da lavoratori, pensionati o hobbisti che non possiedono più di una dozzina di capi ciascuno il che rende abbastanza difficile la possibilità di fare una rete efficace per la salvaguardia del prodotto.

Agnello dell’Alpago, (foto Facebook della cooperativa Fardjma)

L’agnello dell’Alpago e il Presidio Slow Food

Il principale attore nella rinascita della tradizione dell’Agnello dell’Alpago è la Società Agricola Cooperativa Fardjma, nata nel 2009 con sede a Tambre, per la gestione della commercializzazione della carne degli agnelli allevati dai soci, che insieme possiedono oltre la metà di tutti i capi presenti in Alpago. Fardjma, che sembra una parola esotica, è in realtà il nome che nel dialetto locale viene dato al periodo della monta delle pecore.

La carne di agnello, nell’epoca moderna, ha suscitato non poche perplessità su chi ritiene necessaria un’attenzione etica al cibo che si consuma. In questo senso, l’agnello dell’Alpago tutelato dal presidio, mantiene alcune promesse importanti. Gli agnelli infatti devono essere allattati esclusivamente dalla madre fino allo svezzamento; dopo, la loro alimentazione si basa su pascoli naturali e foraggi locali; sono vietati OGM e sostanze chimiche nei mangimi e la farmacia omeopatica e fitoterapica è quella usata per curarli, salvo casi importanti in cui non ci sia una valida alternativa all’allopatia. Inoltre, la loro commercializzazione, sta permettendo di mantenere una zona come l’Alpago intatta e ancora principalmente vocata all’allevamento e alla coltura.

Gli agnelli vengono macellati tra i 50 e i 90 giorni vita, quando tra i 16 e i 28 kg. Fardjma acquista settimanalmente gli agnelli dai suoi soci, si occupa del trasporto e della macellazione in strutture locali, e li marchia in un suo laboratorio garantendo la tracciabilità del prodotto. Oggi, la carne di agnello dell’Alpago è servita nei migliori ristoranti del Veneto, tra cui la Locanda San Lorenzo e il Ristorante Dolada, entrambi con una stella Michelin ed entrambi in Alpago. Fardjma ha in tutto una settantina di clienti in tutto il Veneto, oltre a qualche macelleria lombarda.
In Alpago la carne di agnello si trova nelle celebri Macellerie Brandalise di Spert, o nella macelleria De March a Tambruz, frazione di Tambre, o ancora alla coop di Lamosano; oltre che nei ristoranti e negli agriturismi più celebri della zona, come Il Miramonti di Col Indes, o la malga Illari a Chies, che vanta un gregge di circa 700 capi o ancora l’agriturismo Valmenera e il Bar Bianco sulla piana del Cansiglio e il ristorante Al fogher a Spert.

Un piccolo gregge sui colli dell’alpago. (foto Facebook della cooperativa Fardjma)

Le minacce per l’Alpagota

In passato, la carne di pecora era un ingrediente essenziale della cucina contadina. Alcuni piatti tipici non ne potevano prescindere: come la Patora, una zuppa di mais e legumi con carne di pecora; o la Bagozia, polenta con patate, legumi, salame di pecora e pancetta. Ma ancora qualcuno prepara le Pendole, delle strisce di carne di pecora conciate con sale, pepe ed erbe aromatiche, macerate nel vino e affumicate. Una pratica ormai in disuso, consisteva nel consumo dei monconi della coda spellati e arrostiti (i pastori erano soliti tagliare la coda alle agnelle scelte per la monta in modo da facilitare l’accoppiamento e limitare il rischio di infezioni).

Tuttavia ci sono almeno due problemi che minacciano l’evoluzione di questo allevamento, e che, forse, ne stanno minando le fondamenta. La prima è un’eccessiva attenzione alla carne di agnello, mentre gli altri prodotti ovini, come la carne, i formaggi o la lana sono piuttosto caduti in disuso. Menzione d’onore allora per il lanificio Paoletti di Follina, in provincia di Treviso, che ha deciso di investire sulla lana alpagota, con cui ha realizzato una collezione anche per la celebre stilista inglese Vivienne Westwood.
L’altro grande antagonista è ovviamente il lupo, che ha ripopolato le montagne dell’Alpago e che attacca frequentemente gli agnelli. Dal 2000 al 2023, il presidente di Fardjma ha dichiarato di aver perso circa 700 capi a causa degli attacchi dei lupi. Nel 2023, lo chef Riccardo De Prà del ristorante stellato Dolada ha annunciato la chiusura del suo allevamento dopo che il suo gregge è stato completamente sterminato, a seguito di ripetuti attacchi. Non solo, si stima che lo stress degli attacchi abbia influito sulla fertilità delle femmine riducendola di oltre il 60%.

1 commento

  • Quella dei lupi, che alcuni ritengono agnelli, è una questione che nessun ente pubblico si è preso la briga di risolvere.

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