L'Amico del Popolo digitale

L’Amico del Popolo 7 novembre 2024 - n. 44 L’Amico del Popolo In famiglia 31 Punto famiglia Nei casi dolorosi serve empatia La storia di una comunicazione difficile in gruppo e per fare gruppo Il discorso sul bullismo fatto sul numero scorso dell’Amico ha un seguito. «Ci tengo molto a dare una mano a risolvere il caso di bullismo che conosco, ma ho una grande paura di sbagliare. Vorrei essere sicuro di coinvolgere in modo giusto i genitori del bullo, perché intervengano. Ho visto che non è semplice e ho paura di sbagliare, ripeto». Preciso subito che la paura di sbagliare ce l’ho sempre con me, specie nel lavoro di gruppo. Non so mai – lo dico proprio col cuore – come andrà a finire. Ogni persona è molto diversa dall’altra e, quando si toccano tasti di sofferenza, le reazioni possono essere incontrollabili. L’esperienza dà solo alcune certezze, mai sicurezza. Nulla serve meglio di un racconto vero. Preso da un gruppo per genitori che hanno o sospettano di avere la “droga in casa”. Meglio il sospetto nascosto o la certezza che il figlio usi e si accompagni ad amici che usano alcol e droghe? dati e fatti Il gruppo avvenne qualche tempo fa, ma ricordo benissimo quanto accaduto. Posso citare alla lettera, perché la faccenda s’è ripetuta tante volte. Un caso classico. C’è al gruppo quasi una ventina di persone e qualcuno arriva, per motivi di lavoro, anche in ritardo (il gruppo si tiene al pomeriggio, ore 17). Ci sono pure due famiglie nuove: due genitori venuti di libera iniziativa e una coppia (Pietro e Paola, nomi fittizi) arrivata per passaparola, perché un’altra coppia (Luca e Lucia), frequentante da tempo il gruppo, ha udito da un’altra famiglia (Marco e Marta) – arrivata da poco – che il figlio loro bazzica e forse usa con il figlio di Pietro e Paola (la coppia invitata). Pare che questa non sappia nulla. Le due famiglie non si conoscono. Il gruppo di famiglie sofferenti, dopo i convenevoli, non va tanto per il sottile. Si entra subito nel tema, con la domanda base: cos’è successo nel frattempo di una settimana o quindici giorni? Il padre Luca, che aveva invitato caldamente la coppia a venire, presenta il luogo di vita e la loro normale conoscenza (non di amicizia), e avverte che l’invito è collegato al fatto che una famiglia presente (Mirco e Marta) ha qualcosa da dire a loro. Precisa alla coppia, piuttosto spaesata, però già colpita dallo spirito semplice e amicale, caloroso, che pervade il gruppo, che potranno, quando par loro bene, chiudere la comunicazione. Di fatto c’erano altri fatti più urgenti prima, capaci di dar subito modo alle due nuove famiglie di imbattersi nell’argomento - tosto - che sta nel cuore di tutti: la dipendenza dei figli. Argomento alla pari, che fa darsi “tutti del tu”. Appena esaurite le urgenze, Luca, padre invitante, chiede alla nuova coppia se vuole chiedere. Ed è la mamma Paola a far la domanda. Trascrivo. «Vorrei sapere che cosa volete dirmi, dice alla famiglia sconosciuta. Sono già in ansia per quanto ho sentito e visto qui. Volete dirmi che mio figlio usa droga come succede a vostro figlio?». «No affatto!», risponde Mirco, il padre del figlio che ‘‘si fa’’. «Sono contento che siete qui per informarvi che mio figlio e vostro figlio si conoscono e si trovano assieme». «Cioè a dirmi che vostro figlio usa e quindi… ?», la mamma piena di ansia si ferma. «… nostro figlio si fa insieme al vostro?», ribatte forte Pietro, marito e padre per far da spalla alla moglie. «No, non ho detto questo», conferma Mirco. «Ho detto che mio figlio s’incontra con vostro figlio». «Quindi che mio figlio si droga come vostro figlio!», dice il padre alzando la voce irritato. «Non so se vostro figlio si droga. Mio figlio lo fa. Ho detto solo questo!». Alla ribadita affermazione Pietro perde le staffe. «Ma sai che posso denunciarti? Hai fatto un’affermazione qui in pubblico e non porti alcuna prova. Non ho mai saputo che mio figlio usi sostanze. La tua è pura supposizione». Il padre Luca che l’ha invitato al gruppo, gli toglie di brutto la parola, con voce forte, arrabbiata, molto autorevole, e gli ricorda. «Calmati, Pietro! L’illazione la fai tu. Primo, qui non è un luogo pubblico, ma un gruppo di auto aiuto. Secondo, qui sono tenuti tutti al segreto di gruppo. Terzo, ti ho invitato a venire al gruppo perché tu possa sapere cose che non sai. Quarto, stai prendendo un abbaglio. Quinto, siamo qui per aiutarci per il meglio dei nostri figli». Il padre invitante si rivolge con lo sguardo a me, che non ho detto alcuna parola, salvo saluto iniziale. Come a dirmi «intervieni». Intervengo e chiedo tre minuti di silenzio. «Così possiamo stare in contatto con le nostre emozioni e sentimenti. Cerchiamo di esserne consapevoli», dico. Passati i tre minuti, mi rivolgo alla coppia che si è sentita “vittima” della comunicazione. «Mamy, comprendo la tua paura. Papy, comprendo la tua rabbia, per il dubbio fatto che ti ha preso in contropiede. Sono vicino al vostro malessere. Gradirei che il papy che vi ha dato la comunicazione riprendesse a parlare con voi e perché vi ha detto che i vostri figli si conoscono». «Scusa don, ma mi sono sentito co… a dare una notizia del genere e ricevere la sua reazione», dice Mirco riferendosi al padre dell’amico di suo figlio. «Non c’è niente di male a sentirsi co… quando si vuol aiutare davvero le persone a sapere le cose per come sono. E qui finora hai detto soltanto che i due ragazzi si incontrano. Sai che notizia, liberi come sono a incontrarsi i ragazzi di oggi?». Lo dico con faccia sorridente e in modo buffo, pesando e facendo notare proprio il co… Il gruppo ride, nel clima subito stemperato. Una mamma delle presenti si alza e va ad abbracciare la nuova mamma Paola che si è sentita dire la cosa e sta piangendo. Poi commenta: «Guarda che qui impazziamo tutte per il bene dei nostri figli, quelli sì… co… !». La mamma stupita, quasi sorride. «E adesso che so che mio figlio si incontra col tuo, che me ne faccio della cosa?», dice rivolto al padre dell’amico. «Scusami, se vuoi… solo se vuoi, puoi fare quello che ho fatto io con mio figlio. Cioè interessarmi di più e più a fondo di quello che faceva. Allora ho saputo con precisione quello che c’era o non c’era di mezzo. E ho scoperto un certo traffico di mio figlio, oltre che il suo uso. Sono qui a cercare le decisioni migliori per creare rapporti nuovi con mio figlio. Diventare padre consapevole e responsabile, più che posso, insieme a mia moglie, perché stiamo soffrendo molto. Prima non lo ero del tutto. Posso dirti che sono qua per me, non per lui. Lui per le sue faccende è più esperto di me. Tocca a me imparare a gestire queste faccende, a volte perfide, perché mio figlio bara. Mirco si emoziona e ha gli occhi umidi. Alle sue parole segue silenzio. Riprendo allora la parola e chiedo ai genitori di dire, uno per uno, le loro posizioni e i sentimenti di quando scoprirono le faccende – come detto da Mirco – dei figli. E ribadisco: «Ciò non è perché spingiamo a credere che il figlio di Pietro e Paola si fa, ma perché condividiamo con loro la nostra esperienza davanti a notizie che fanno dolore». Tutti fanno il giro. Pietro tiene il viso teso, ma Paola comincia a dire grazie a ognuno che parla. Il gruppo si riempie di sentimenti circa gli eventi, conferme e paragoni, sorrisi e qualche battuta. Infatti capita che alcuni usino forte ironia verso se stessi nelle proprie cecità e incompetenze e le azioni paradossali fatte. A fine gruppo succede che Pietro e Paola si lascino abbracciare. Il gruppo chiude così. Nei gruppi seguenti si saprà, da Pietro, che il figlio è agli inizi dell’uso di cannabis, ma non la riceve dal figlio di Mirco. I due figli sembrano amici sull’uso del motorino, non soci in affari di droga. senso e significato Come si è visto non vi sono sicurezze. Si costruiscono rapporti tramite alcune indicazioni e certezze che vengono dalla pratica, soprattutto dall’apertura e condivisione di tutti. Solo così può avvenire un coinvolgimento di altri genitori interessati ad affrontare cose che danno ferite spiacevoli e dolorose. Spesso lunghe. valutazione Ecco il punto. Davanti a un’improvvisa sofferenza, capita che non la si voglia sentire, in modo assoluto. La si rifiuta, in modo brusco e totale. Si rifiuta non solo l’idea di soffrire, ma lo stesso fatto/ evento arrivato addosso, mai messo in conto. Noi stessi non ne conoscevamo la possibilità. Per esempio, rifiutiamo d’aver fatto un incidente d’auto che ci ha ferito. Una negazione che la mente mette in moto, riuscendo perfino a dissociarci dalla realtà. Il dolore, il male, è una brutta bestia, specie se lo sentiamo ingiusto. E troviamo mille modi per dare spiegazioni distraenti. Scatta il principio di difesa e chiusura dal male. Si mette un muro davanti. Anzi no: un muro sta appunto davanti, mentre la corazza che ci si mette sta dentro ed è tenuta su dalla mente. Funziona da chiusura, meccanismo immediato di negazione, appena il male torna al pensiero. Un comportamento tipico di chi usa sostanze o sta dentro qualsiasi tipo di dipendenza. Pure dentro la pratica del bullismo. Viene negato il fatto di aver danneggiato e usato violenza. E il ragazzo o la ragazza, autori, spesso riesce a trascinare dentro pure i genitori in questa negazione. Di qui diventa preziosissima la presenza, in gruppi paritetici, di persone che si trovano dentro lo stesso problema/evento da risolvere. Proprio per apprendere e interiorizzare quelle sofferenze e far scambio di conoscenze. Le sicurezze sono spesso false. Meglio i dubbi e l’ascolto; meglio lo scambio di riflessioni e modi d’intervento; meglio l’apprendimento sulle prime scelte orientanti e su qualche decisione da prendere, ben consapevoli tutti che il futuro non è nelle nostre mani. Tanto più quando vi sono di mezzo i comportamenti di altri. Anche se sono figli. Le certezze e le competenze vengono affrontando le cose, grazie alla spinta della sofferenza, che via via si attenua e si riesce poi a gestire. scelte e decisioni Bisogna allenarsi alla pazienza e alla costanza a stare nel dolore. Necessario subito eliminare giudizi e auto giudizi. Mettere da parte la voglia di dare spiegazioni e colpe, perché bloccano l’opportunità di percorrere strade nuove in prima persona. Il lavoro in gruppo serve ed è determinante per fare apprendimento sociale. Le idee sono preziose, ma non valgono quanto la condivisione e la solidarietà, che danno illuminazione e forza partecipativa, spesso pure aiuto concreto. Nel caso di bullismo, l’azione insieme socializza il problema, così che se ne può venire a capo. Tutti insieme. Gigetto De Bortoli L’eremita e la pastorella Un vecchio eremita viveva in solitudine sul monte, nutrendosi di radici e di frutti selvatici, per espiare alcuni errori di gioventù. Lì vicino, ogni giorno arrivava una pastorella che pascolava il gregge e cantava senza sosta inni alla Beata Vergine. La voce della ragazza era così limpida che il vecchio si perdeva ad ascoltarla e si distraeva. Tanto che un giorno urlò: «Vorrei vederla a 100 leghe di distanza, questa pastorella che disturba le mie preghiere!». Proprio quel giorno, forse perché si era distratta cantando più del solito, la ragazza smarrì una pecora. Il padrone urlò: «Vai via, lontano, almeno 100 leghe!». La piccola se andò, mendicando il pane di porta in porta “per amor di Dio”. Normalmente l’eremita era visitato tutti i giorni dal suo Angelo protettore, che lo incoraggiava a perseverare. Ma, dopo lo sfogo con la pastorella, rimase otto giorni senza quella visita. «Per quale motivo?», si chiedeva. Il nono giorno, l’Angelo arrivò e disse al vecchio: «Hai commesso un errore e Dio è scontento di te!». «Quale colpa avrei commesso?». «Hai allontanato la pastorella che cantava inni alla Vergine! La piccola ora sta camminando mendicando il pane, finché non avrà percorso 100 leghe, proprio come volevi. Dovresti andarla a cercare. Dio ti perdonerà solo quando l’avrai trovata». L’eremita: «Ma quale strada devo prendere?». L’Angelo sparì senza rispondere. Il vecchio si mise in cammino, a caso. Mentre la pastorella arrivava presso la dimora di una ricca vedova. Costei - affascinata dalla dolcezza e dalla pietà della ragazza - accettò di ospitarla. La donna aveva un figlio, che s’innamorò della giovane. Però i parenti, di origini nobili, non acconsentirono a quell’unione. L’innamorato sposò comunque la ragazza e i due dovettero lasciare la ricca dimora e ritirarsi in un edificio più modesto. Dopo un anno la coppia ebbe un bambino. Ma neanche questo servì per riavvicinare i parenti. Lei non mancava di andare quotidianamente presso una cappellina che le aveva dedicato nel boschetto vicino casa. Il bambino crebbe pieno di salute, dimostrando una rara intelligenza. Al compimento dei 3 anni i suoi genitori invitarono i parenti paterni per i festeggiamenti e questi accettarono. La mattina del giorno stabilito, la giovane andò a far visita alla Vergine. Ma, tornando a casa, trovò il marito e i vicini in pianto. Il suo figliolo era disgraziatamente caduto nell’acqua bollente ed era deceduto! La madre, pur disperata, disse con rassegnazione: «Dio me l’ha dato e Dio me l’ha tolto. Che il suo santo Nome sia comunque benedetto!». Prese il corpo del piccolo e lo nascose in un armadio, pensando ai parenti che stavano arrivando. Quando gli ospiti chiesero di vedere il bambino, lei disse: «Sta riposando; lo saluteremo più tardi!». Alla fine del banchetto, come ogni giorno, la sposa uscì nel cortile per distribuire il cibo ai poveri. Tra di essi si presentò un vecchio che si sosteneva a fatica sulle gambe. Costui s’inginocchiò e la donna gli diede il cibo, pregandolo di alzarsi. Lui precisò: «Niente mi darebbe sollievo come la vista di ciò che hai rinchiuso nell’armadio». «Non vi ho mica posto del cibo!», precisò lei. Il vecchio insistette: «Per favore, in nome di Dio, fammi vedere ciò che hai messo lì stamattina!». La donna andò in casa, aprì l’armadio e vide il suo bambino pieno di vita, sorridente, con un’arancia in mano. Ebbra di felicità, lo prese in braccio e corse a mostrarlo al vecchio mendicante. Questi lo baciò e poi morì serenamente. Era il vecchio eremita. Dio lo aveva perdonato e la sua anima era salita in cielo. La madre presentò agli ospiti il suo figliolo, sorridente, con l’arancia in mano. E raccontò loro ciò che era accaduto: la morte del bambino, la sua risurrezione e la visita dell’eremita. Il vecchio, che era stato la causa di tutto, fu sepolto con solennità e d’allora quella famiglia visse sempre unita e timorata di Dio. La storia - raccolta in Bretagna nell’isola di Ouessant nel lontano 1873 - parla di fede e di devota rassegnazione, insistendo sul lieto fine quando il timore di Dio e la carità fossero grandi e sinceri… Il racconto e l’illustrazione di Elena Rizza sono tratti dalla pubblicazione di Ezio Del Favero «Parabole della Montagna 3», Editrice Elledici. Storie dal mondo raccolte da Ezio Del Favero

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