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Prestare gli occhi

di Luigi Del Favero

Sabato 16 luglio si era esaurita la serie di temporali che avevano segnato tutta la settimana. Rimanevano come testimoni del passaggio delle burrasche un vento sostenuto e freddo e la neve che imbiancava le cime. Dal piazzale della chiesa di Falcade guardavo ora il Focobon, ora la Civetta, ma soprattutto mi guardavo attorno perché l’atmosfera limpida offriva obiettivi su cui posare gli occhi da ogni parte. Anche le cose minori erano diventate belle. All’uscita di chiesa dopo la Messa ci attendeva quanto di più spettacolare possano darci le nostre montagne. Avviandosi il momento del tramonto, quelle ’crode’ che il linguaggio popolare descrive come lavate dai forti temporali dei giorni precedenti, esigevano che ci si fermasse ad ammirarle. Attorniato soprattutto da turisti, avrei voluto dire loro di fermarsi, di non lasciarsi sfuggire l’occasione perché una serata simile non capita di frequente. Ecco: avrei voluto dare loro i miei occhi perché vedessero tutto quello che io vedevo, senza trascurare il volo delle rondini che sfidavano – vittoriose – il vento, restando però silenziose. Il mio intervento sarebbe stato in buona parte superfluo dato che molti si erano già fermati e con decine e decine di telefonini riprendevano quel quadro straordinario. È proprio ciò che faccio fatica a capire, perché al posto di tanti scatti, io preferisco fermarmi, guardare e permettere a quello che mi colpisce di imprimersi negli occhi, nel cuore e depositarsi nella memoria da cui non si cancella più. Intendo la memoria umana e non quella fredda del computer.
Può accadere che se qualcuno ci presta i suoi occhi, il tragitto che parte dagli occhi stessi per giungere alla memoria e al cuore si apra di nuovo e l’accesso diventi immediato e i sentimenti possano come risorgere. A me questo capita soprattutto grazie alla lettura di una descrizione che mi riporta lì dove una volta sono stato oppure grazie alla telefonata di un amico che mi racconta cosa vede da una vetta o cosa ammira attraversando in questi giorni un vallone pieno di rododendri fioriti. Non solo li vedo, ma ho l’impressione di percepirne pure il profumo. Prestare gli occhi è stato l’esercizio che ho fatto spesso negli ultimi anni con mia madre che aveva perso quasi completamente la vista. Le descrivevo la fioritura o del suo giardino o di qualche località di montagna da lei conosciuta. Il compiacimento era evidente, le domande curiose, la soddisfazione palpabile. Spesso precedeva la mia descrizione e guidava lei il discorso dicendo che il primo rosaio aveva il tal colore e quella forma particolare, che il secondo produceva i fiori ’a mazzetto’, che le rose del terzo avevano una forma perfetta. Le rivedeva, ritrovava nella sua memoria una sequenza di immagini rimaste nitide. Io le avevo solo prestato gli occhi per avviare la visione. Altre volte le descrivevo l’addobbo della chiesa, quello che lei stessa aveva curato per anni. Non sempre però la cosa riusciva. Negli ultimi tempi diceva con dispiacere di non ricordare più il volto di mio padre, morto 58 anni fa, e non se ne spiegava il motivo. Le ho preparato l’ingrandimento di una foto, sperando che con la vista superstite e l’aiuto di una lente, potesse rivedere quel volto amato. Riconobbe immediatamente il vestito, dicendomi il luogo dove avevano acquistato la stoffa e il nome del sarto che aveva confezionato l’abito, però non riuscì a mettere a fuoco il viso. Le dispiaceva pure di non aver mai potuto vedere la faccia di papa Francesco. Ne riconosceva la voce e la sagoma della figura bianca, ma il volto non riusciva ad immaginarlo. Un giorno le dissi che era un po’ simile a quello del don Camillo dei famosi film. Trovò l’accostamento irriverente e si scandalizzò. Ora che lei non c’è più il ricordo delle volte in cui le ho prestato gli occhi rimane tra i più dolci.
Ieri mattina dopo una notte serena e quasi fredda in montagna, sono passato per Pian di Salesei attraversando il grande prato dove l’erba spuntata dopo il primo taglio è già abbastanza alta e fitta. Ho indicato a colui che viaggiava con me l’abbondante rugiada di cui l’erba era madida. Rispose che non vedeva nulla. Gli spiegai che il luccichio che si notava tra l’erba per tutta la distesa pianeggiante era prodotto dai primi raggi del sole che raggiungeva il terreno coperto di rugiada, sollevando anche, là in fondo, una leggerissima nebbiolina. Ribattè attribuendo la cosa alla pioggia della sera precedente. Facile per me replicare che il numero pressoché infinito di goccioline arrampicate su ogni stelo e depositate delicatamente su tutte le foglie era prodotto solo dalla rugiada notturna: lo invitai a fissare bene e ammirare. Confermando il fallimento del mio sforzo, disse che non vedeva niente di straordinario.
Proprio come i giudici della Corte di Strasburgo o i magistrati italiani del Consiglio di Stato che non riescono a vedere la famiglia, quella ’normale’, descritta mirabilmente dalla nostra Costituzione. Non la vedono e straparlano, con sentenze e provvedimenti che riteniamo pericolosi per la nostra civiltà. Ma come prestare gli occhi a chi non vuol vedere?

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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