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Timidezza, discrezione o sorpresa?

di Luigi Del Favero

Sabato scorso, nel tardo pomeriggio, quando la sera si avvicina, più rapida di quanto vorrebbe la stagione, a causa della copertura del cielo, salgo in fretta verso il passo Pordoi percorrendo i tornanti fino a due terzi della salita. Solitudine e silenzio completo in un ambiente pienamente autunnale, stanco per il settembre siccitoso ma finalmente libero da moto e biciclette che rendevano tesa la guida fino a qualche settimana fa. Uscito dall’auto per raccogliere alcuni rametti sempreverdi e odorosi di rododendro, con la temperatura a zero gradi, faccio i pochi passi che mi servono per la mia raccolta. È allora che avverto qualcosa sul volto. Passo istintivamente la mano che coglie una goccia; poi quel qualcosa cade proprio sulla mano e ho l’impressione che si tratti di neve che però, sciogliendosi immediatamente, mi lascia in dubbio. Finalmente sulla giacca nera vedo con chiarezza che è proprio neve. Sono fiocchi rari, leggeri, vaganti, che non si possono inseguire. Timidezza o discrezione di questa creatura che mantiene intatto il potere di trasmettere una gioia quasi infantile? Sarei molto incerto nell’affermare che la neve sia per natura sua timida o discreta. L’ho conosciuta per tanti inverni nella tormenta, l’ho sperimentata nelle giornate in cui si ammassa implacabilmente costringendo a lavorare senza sosta per tenere aperto un passaggio. Ho sperimentato la sua capacità di ingombrare le strade ed ho imparato quanto sia pericolosa quando si accumula sui tetti o quando piega o addirittura spezza gli alberi. No, la neve, pur così bella, non porta iscritte nella sua natura la timidezza e la discrezione. Come trasfigura un paesaggio, così può devastarlo.
Per interpretare i fiocchi di neve di sabato, i primi di questa nuova stagione che volge all’autunno, penso alla sorpresa. Le previsioni del tempo avevano abbondantemente annunciato la possibilità di neve per il fine settimana sopra i 1500 metri e le nuvole compatte e oscure la facevano presagire. Ma questo lo sa la testa e pure i piedi, così riluttanti a scaldarsi per tutto il giorno. Ma i sentimenti (o l’animo?) hanno avvertito l’effetto della sorpresa. Quei fiocchi leggeri erano il tocco di un amico, la voce sussurrata di chi ci vuol bene, il benvenuto gentile da parte di un familiare, l’annuncio di una presenza amata che dice semplicemente: «Io ci sono, ma non voglio farti paura nè crearti un problema; non ti farò mai del male». Dio si avvicina così all’uomo?
Ogni tanto si alza qualcuno a lamentare l’assenza di profeti per questo nostro tempo. Probabilmente si pensa a voci forti che si impongono, che denunciano coraggiosamente il male, che sanno rimproverare e richiamare. C’è chi pensa a papa Giovanni Paolo II come all’ultimo profeta. Altri hanno in mente figure singolari che hanno occupato la scena, anche mondiale. Pur ricordando che per la fede biblica attribuirsi titolo e funzione di profeta è un peccato, la scomparsa della profezia è avvertita come un impoverimento e una mancanza di coraggio. Un esperto ha osservato che anche nella storia dell’antico Israele ad un certo punto la profezia si è spenta. Ha concluso che ci possono essere profeti solo quando c’è la fede: anche se ci sono peccati e infedeltà, se è vivo il ricordo di Dio e della sua presenza, la voce dei suoi inviati rimane udibile, anzi è ricercata. E non importa se è forte, talvolta rude, perfino arrabbiata, perché in ogni caso certifica che Qualcuno ci segue. Quando la fede viene meno i profeti non si fanno più sentire. Dio tuttavia non si ritira e non rinuncia a camminare in mezzo al suo popolo che forse si è mescolato con altri popoli, ha conosciuto culture diverse e perfino parla lingue che non sono più quelle della tradizione antica. In quel momento Dio suscita i Sapienti la cui voce è ampiamente registrata nella Bibbia. Parlano a partire dall’esperienza, scrutano la vita, ascoltano le domande degli uomini e si pongono essi stessi tante domande. Giobbe ne è testimone. Riflettono molto sul nascere e il morire, il lavorare e il soffrire, l’amare e l’odiare; scrutano l’origine dell’uomo sulla terra e si proiettano verso la fine cercando di illuminarla. Valorizzano molto la ragione, ma prendono in gran considerazione le ragioni del cuore. Se occorre, scrivono in greco per farsi capire. Poi puntano ad alcune vette dalle quali si inoltrano nel mistero di Dio o interpretano mirabilmente la storia. Scandagliano la vita e ne scoprono i tesori. Non vedono l’uomo in astratto ma nella concretezza: nella casa dove scoprono ad esempio la famiglia di Tobia, con l’abito da lavoro, con la veste del giudice o gli abiti del re, sul letto dove soffre gemendo in attesa dell’alba o cercando la pace della notte. Vedono abitualmente l’uomo e la donna nella loro dualità e la interpretano, la cantano, la esaltano; talvolta ne guardano la fragilità con comprensione e con complicità benevola. Lo Spirito di Dio li assiste, li guida nel loro pensiero e parla attraverso le loro parole. Gesù ha dei lineamenti che richiamano la figura del "sapiente". Basta ascoltarlo quando parla in parabole.
Che sia un quadro che va bene anche per il nostro tempo? Che si tratti di uno stile che deve accompagnare il credente nell’epoca della complessità, della globalizzazione e ‐ occorre dirlo ‐ dell’incredulità diffusa? Quei fiocchi di neve sui tornanti del Pordoi dicevano di sì.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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