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Abbiamo un debito con Lui

di Luigi Del Favero

«Nei monasteri si aspetta ancora il domani di Dio?». È una domanda che non riguarda solo i monaci e le monache di clausura, ma tutti i cristiani. Nel momento in cui ripartiamo nell’Avvento 2016 ci scambiamo l’interrogativo. Siamo cioè consapevoli che ci è stato assegnato il posto delle sentinelle che devono scrutare pazientemente nell’oscurità per scoprire i segni del ritorno di Dio nel mondo. Non terremo per noi la scoperta, ma ne daremo avviso a tutti. Oggi però questo annuncio non passa attraverso le parole e ancor meno attraverso messaggi accattivanti, fatti per stupire. Il messaggio è credibile solo se lo si può vedere nella vita, quella che si mescola con l’esistenza di uomini e donne che ci vivono accanto. Lo Spirito di Dio, come fa sempre, ci ha anticipato e ci ha mostrato alcune sentinelle per il nostro tempo, presentandocele in azione con un po’ di anticipo nel cammino del tempo.
Charles de Foucauld possiede tutte le caratteristiche che danno fisionomia alla sentinella che tutti cerchiamo di diventare. La sua traccia è stata lasciata sulla sabbia del deserto e il tempo l’ha ricoperta in fretta, senza tuttavia cancellarla. La memoria del passaggio di fratel Carlo si è fatta debole, troppo debole e forse c’è qualche colpa in ciò, dato che il personaggio è molto scomodo. Per ritrovare la traccia dimenticata ma non perduta, occorre ritornare a quel 1° dicembre 1916 ‐ dunque un secolo fa ‐ nel profondo Sahara. Un gruppo di predoni entra nell’eremo di fratel Carlo, immaginando che un francese deve possedere per forza del denaro. Lo trascinano fuori e lo affidano alla custodia di un adolescente, purtroppo armato di fucile. Al sopraggiungere improvviso di alcuni soldati francesi il ragazzo si spaventa e spara, uccidendo Charles de Foucauld. Si potrebbe definirla una morte banale, nella solitudine dell’Africa. Ma perché egli si trovava proprio lì? Si trattava di un ritorno nei luoghi delle sue spedizioni militari e scientifiche. In mezzo c’era stata la conversione religiosa, il rientro in Francia dove era stato ordinato prete, la permanenza in una Trappa della Turchia, alcuni anni fondamentali trascorsi a Nazareth. Una ricerca apparentemente inquieta e sospetta, ma in realtà guidata da una mèta precisa: voleva vivere come Gesù. Riprodurre la vita del Maestro era diventata per lui una ricerca esigentissima ma, alla fine, pacificante. Non una fuga dunque, neppure l’inseguimento del silenzio e della solitudine che caratterizzava gli antichi monaci del deserto. Fratel Carlo voleva semplicemente rivivere Nazareth e ciò significava quattro cose: lavoro manuale (al primo posto), tanta preghiera, povertà radicale ma anche immersione tra gli uomini. Descriverà così il suo eremo: un deserto nella notte e nelle ore calde del giorno (dalle 10 alle 16), mentre nelle prime ore del mattino e poi ancora nel pomeriggio, fino al tramonto, "sembra un alveare", pieno di gente con mille domande e bisogni. Fratel Carlo era un po’ monaco e un po’ parroco, secondo le ore della giornata, ma senza fatica e senza rimpianti per l’una o l’altra dimensione.
Questo religioso francese molto originale ‐ ma è proprio dello Spirito di Dio fare cose nuove ‐ possedeva una certezza che ad altri era sfuggita. Tutta la vita di Gesù salva l’uomo, proprio tutta la vita, da Betlemme al Calvario: egli sottolineava i lunghi e dimenticati anni di Nazareth. Nazareth ci ricorda che Dio ci salva stando in mezzo a noi, pregando, amando, insegnando, morendo e, prima di tutto "essendo come loro". Cioè come noi, nella condivisione totale. L’uomo ha bisogno che Dio sia lì, a un metro da lui, vicino e raggiungibile. Per fratel Carlo questo era cosa realissima in due modi. Il primo si realizzava nella presenza eucaristica che egli ha portato nel deserto, strappandone il permesso alle autorità ecclesiastiche del tempo. Lo sapessero o no, i suoi berberi del Sahara avevano Gesù vicinissimo. La seconda coinvolgeva la sua persona che doveva essere una pagina leggibile del Vangelo. Per ottenere questo c’era un unico mezzo: leggere instancabilmente il Vangelo stesso.
La semplicità della ricetta di De Foucauld è sorprendente e perfino imbarazzante per noi un po’ appesantiti dalle strutture. Che stia qui la spiegazione della dimenticanza in cui è caduta questa straordinaria figura spirituale? Eppure anche noi abbiamo un grande bisogno di mettere insieme quanto egli ha unito con spontaneità: la vicinanza a Dio cercata senza interruzione, usando anche la notte quando il giorno era stato troppo pieno di lavoro. Dall’altro capo c’è la prossimità fraterna vissuta in modo ruvido, concretissimo, fino ad amare quella cosa apparentemente inutile che è il vivere "con" e "per" gli altri, scegliendo come modello i poveri, quelli che lavorano con le proprie mani e vivono del loro lavoro. Il dono di De Foucauld è stato custodito per un secolo, dal 1° dicembre 1916, e noi scopriamo che è quello che serve a noi oggi. Proprio gli uomini di oggi cercano una comunità ‐ un monastero o una famiglia, una parrocchia o un gruppo di cristiani ‐ che sappiano fare, mettendole insieme, cose inutili: preghiera, lettura del Vangelo, accoglienza, ospitalità vera. E tanta gioia che si accompagna sempre alla misericordia vissuta.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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