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Tante storie di acqua dalla morte alla vita

Ogni tanto ce lo dimentichiamo, ma San Marco era mediorientale ed è arrivato a Venezia da Alessandria d’Egitto su una barca, attraversando avventurosamente il Mediterraneo.
Storie di ieri, che si intrecciano alle storie di oggi, tracciate sull’acqua che unisce e che divide le due sponde di quel mare che una volta – quando eravamo tutti romani o tutti veneziani – consideravamo "nostrum".
Storie di vita e di morte, storie di persone e di numeri, di grandi numeri in cui troppo spesso le singole persone finiscono per scomparire. Numeri che non contano, e che quindi troppo spesso cerchiamo di non vedere, ci abituiamo a non vedere.
Secondo uno dei calcoli più attendibili, sarebbero 4.899 i migranti morti annegati nel solo 2016 nelle acque del nostro Mediterraneo, le "grandi acque" della Genesi, capaci di generare vita ma anche di ospitare mostri che ogni tanto si riaffacciano alle nostre coscienze.
I numeri sono numeri, e invece ci parlano di quasi cinquemila persone. Proviamo a immaginarli, in fila, uno per uno. Uomini, donne, ragazzi, anche bambini, che non conosciamo per nome, che non conoscevamo e non conosceremo mai.
Oggi invece sappiamo il nome di uno di loro.
Si chiamava Pateh Sabally il ragazzo di 22 anni arrivato a Venezia dal Gambia, uno stato africano che la maggior parte di noi deve cercare in Internet o sull’Atlante per sapere davvero dove si trova. Pateh era arrivato fino a Venezia, dopo aver attraversato i deserti e poi il mare, per finire annegato nell’acqua del Canal Grande, proprio davanti alla Stazione di Santa Lucia, il pomeriggio di domenica 22 gennaio, davanti a centinaia di persone, turisti e veneziani, che per qualche minuto lo hanno visto nuotare nell’acqua gelata, sempre più lentamente, sempre più faticosamente, fino a quando è scomparso annegando a pochi metri dalla riva, dai vaporetti e dalle gondole.
Gli hanno tirato qualche salvagente, molti lo hanno incitato ad afferrarli e salvarsi. Non lo ha fatto. Non sapremo mai se il suo voleva essere un gesto estremo o se voleva solo attirare l’attenzione sulla sua storia di violenze subite, di diritti negati, di burocrazia sorda e cieca, di lavoro che non si trova nonostante il permesso di soggiorno, nonostante tanti sogni, tanti sforzi, tante illusioni disilluse.
Qualcuno voleva aiutarlo, qualcuno ci ha provato, ma qualcun altro ‐ nel nostro Veneto di oggi ‐ lo ha insultato, come forse aveva sentito fare impunemente alla televisione, qualcuno lo ha preso in giro mentre annaspava, chiamandolo "Africa", qualcuno ha filmato la scena con il telefonino, perché oggi tutto è spettacolo, la vita in diretta come la morte in diretta.
Non è facile buttarsi nell’acqua gelida a gennaio. Nessuno di noi sa cosa avrebbe fatto, cosa avrebbe potuto fare se avesse assistito alla scena.
C’è un telero, all’Accademia, con le storie della Santa Croce di Gentile Bellini. Quando la preziosa reliquia cadde in un canale solo pochi coraggiosi si tuffarono in acqua per salvarla. Ci riuscì Andrea Vendramin, il Guardian Grando della Scuola di San Giovanni Evangelista. Ma sulla destra del quadro si vede ancora un ragazzo di colore, probabilmente uno schiavo, pronto a buttarsi in acqua, pronto a fare la sua parte.
"Estote parati". Bisogna essere pronti. Pronti a buttarsi, chi può e chi lo sa fare. Ma pronti comunque sempre a stare dalla parte degli ultimi.
Abbiamo ascoltato le Beatitudini domenica scorsa. Ci interpellano ancora, noi, che siamo tutti figli di San Marco, arrivato dall’Africa su una barca, noi spettatori o lettori di questa storia di acqua, di morte e di vita.

Leggi il "fondo" della settimana scorsa.

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