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sabato 23 Novembre 2024,

“Vivere la prossimità”, a Vittorio Veneto la testimonianza di Aldo Bertelle

«La Caritas deve essere un camper, non un palazzo». 320 persone all'incontro di Vittorio Veneto, nella serata di venerdì 25 ottobre, con monsignor Redaelli (presidente di Caritas Italia) e con Aldo Bertelle

Una bella partecipazione ha caratterizzato l’appuntamento di venerdì 25 ottobre, nell’aula magna del Seminario a Vittorio Veneto. La serata, organizzata da diversi uffici pastorali della diocesi, ha voluto rilanciare il percorso “Vivere la prossimità” che ha coinvolto, nello scorso anno, operatori della Caritas, della Pastorale della salute, dell’Ufficio missionario e i ministri straordinari della Comunione sul tema del “farsi prossimi” alle molteplici situazioni di fragilità presenti nelle comunità. Dopo le parole introduttive di don Andrea Dal Cin, vicario per la pastorale, e del vescovo Corrado, Gian Antonio Dei Tos, ha condotto la serata, introducendo i due relatori: monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas Italia, e Aldo Bertelle, direttore della Comunità Villa San Francesco di Pedavena.

Monsignor Redaelli ha cercato di definire cosa sia la povertà, distinguendo tra povertà assoluta e relativa. Si trova in “povertà assoluta” chi non è in grado di disporre dei beni essenziali. Secondo l’Istat, i cui dati sulla “povertà in Italia 2023” sono stati presentati lo scorso 17 ottobre, in Piemonte la soglia di povertà assolute è di circa 900 euro al mese, in Sicilia circa 700 euro… Varia a seconda del costo della vita nelle singole regioni. Chi è sotto questa soglia fa fatica a vivere. La “povertà relativa” fa riferimento alla media della disponibilità della popolazione di una nazione: è povero in senso relativo chi non può accedere ai beni dei quali la maggior parte dei cittadini di quel Paese dispone. In Italia la soglia della “povertà relativa” è di 1200 euro: «Non si vive sotto un ponte, ma non si hanno le possibilità che ha la maggior parte della popolazione». «In Italia – ha affermato ancora il vescovo – sono in povertà assoluta circa 5,7 milioni di persone, mentre vent’anni fa erano un milione. La povertà relativa, invece, riguarda circa 8,5 milioni di persone».

«Servono queste definizioni? – si è poi chiesto Redaelli – Servono a interpretare la realtà: in Caritas lavorano anche dei sociologi». Tuttavia, ha precisato, la povertà non riguarda solo l’aspetto economico: «Dipende anche da come percepisci la povertà: c’è una povertà educativa, relazionale, sanitaria… E ce ne sono anche altre che papa Francesco ha indicato nella Evangelii Gaudium come «la mancanza di cura spirituale» (EG 200). Così è importante anche l’attenzione umana e spirituale alle persone che vengono ai centri di ascolto: non basta dare la spesa». I poveri, infatti, sono persone: «Se generalmente dai del “lei”, devi darlo anche i poveri. E va curata anche la bellezza e la dignità degli ambienti delle nostre Caritas: il centro di ascolto deve essere un ambiente bello e accogliente: sono piccoli segni per dire che “tu sei una persona” di cui riconosco la soggettività, la dignità». Il rischio è voler dire ai poveri che cosa devono essere, mentre è necessario accettare «che non siano contenti di essere quello che sono (cioè poveri) e che non siano perfetti (coi loro limiti)».

Il vescovo Redaelli ha anche ricordato il compito pedagogico della Caritas nei confronti delle comunità cristiane: «Se la comunità non è pronta, certi progetti non si fanno». E ha anche ricordato l’azione di “advocacy” che Caritas svolge presso realtà istituzionali, dove «si va con dei dati» e non con dei semplici proclami. E i dati Caritas si basano su quelli forniti dagli oltre 3mila centri Caritas sparsi su tutto il territorio: «A suo tempo, abbiamo segnalato che il Reddito di Cittadinanza toccava solo per il 40% i poveri che frequentavano i nostri centri. Come pure il persistere di una povertà intergenerazionale: i nostri centri sono frequentati dai figli di genitori che li frequentavano precedentemente».

Alla luce della pagina evangelica della parabola del Buon samaritano, mons. Redaelli ha affermato che è necessario cambiare prospettiva del nostro “farsi prossimi”: «La parabola del Buon samaritano fa un passo in più rispetto alla già nota “regola aurea” del “fai al prossimo quello che vorresti fosse fatto a te”. Si parla di “compassione”; avere compassione anche quando non si può far nulla: anche piangere quando non posso far nulla, in un tempo in cui, dopo il covid, è aumentato il nervosismo, la pretesa… Compatire è un dono da chiedere al Signore, per avere i suoi stessi sentimenti». Infine, ha richiamato le tre vie che papa Francesco ha indicato a Caritas Italia in occasione dei suoi cinquant’anni. Innanzi tutto, “la via degli ultimi”: «Gli ultimi mettono il dito nella piaga delle nostre contraddizioni». Per questo è necessario mettersi alla ricerca dei poveri, conoscerli e prendere in considerazione non solo chi viene ai nostri centri ma frequentare i “luoghi della povertà”, con un atteggiamento di grande misericordia, cercando di vedere la realtà con i loro occhi. La seconda è la “via del vangelo”, con riferimento adue “mappe evangeliche” indicate da papa Francesco: le beatitudini (Mt 5), che aprono ad un orizzonte di speranza, e il giudizio finale (Mt 25), che fa appello a una “parresia della denuncia”, animata però da un’intenzione costruttiva. Infine, la terza è la “via della creatività”, chenon si ferma al “si è sempre fatto così”: «Ciò vale anche per le opere-segno che diventano stabili: la Caritas dovrebbe essere più simile ad un camper che a un palazzo», quindi leggera, pronta a cambiare e adattarsi a seconda delle richieste e delle sue effettive possibilità.

L’intervento di Aldo Bertelle, dal 1974 responsabile di Villa San Francesco a Facen di Pedavena, ha avuto il tenore di una “testimonianza profetica”, alla luce della sua esperienza pluridecennale di accompagnamento di oltre 4mila ragazzi, aiutati – grazie all’associazione ed alle sue molteplici attività – a diventare adulti responsabili e attivi nella società. Bertelle ha esortato i vescovi a «uscire dai propri episcopi e ad abitare gli episcopi della strada», solo così si può vivere davvero la prossimità. Facendo appello all’urgenza dell’impegno di tutti, in prima persona, ha ricordato che «io sono il compito più severo di me stesso» e che «il cielo si impara scendendo», perché «si è stanchi anche di non camminare» e bisogna «alzarsi e prendere in mano la nostra vita, camminando con le scarpe degli altri».

Si è poi soffermato sui giovani, dopo essere andato a fare visita al Quadrilatero di Vittorio Veneto: «Bisogna creare con i giovani – ha tuonato – un patto intergenerazionale: l’Italia è un Paese serio, un Paese per bene. Quella di oggi è una “assenza” educativa, non un’emergenza». Bisogna stare con i giovani, essere degli infiltrati, perché «l’esempio è un tuono». Bisogna far sorgere dubbi e creare dei formatori appassionati, che diventino tra i giovani degli “infiltrati di bene”. Infine, bisogna superare la “prossimità distante” delle nuove tecnologie: «Basta “cuoricini” o “mi piace” (dei social, ndr)! Rispondete con parole, con un gesto, con la dolcezza di una carezza, con un “ti voglio bene” detto personalmente. Recuperiamo il contatto fisico: ricominciamo a vivere insieme, con dei veri contatti umani». Due proposte molto diverse, quindi, che però hanno lasciato entrambe, ai numerosi presenti, diversi spunti di riflessione su come “vivere oggi la prossimità”.

Alessio Magoga

2 commenti

  • Bene la Caritas camper, se la Chiesa è ospedale da campo.

  • Buonasera. Io credo che ciascuno di noi sia in grado di fare un gesto di vicinanza, cominciando dalle piccole cose che talvolta, a torto, possono sembrare banali : il saluto accompagnato dal sorriso, l’offerta di aiuto per aprire una porta, compilare un bollettino, indicare un indirizzo… Ogni giorno offre mille possibilità per andare incontro.

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