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Le cose parlano

di Luigi Del Favero

Sulla strada alta che collega Rivamonte Agordino a Frassenè si incontra un enorme faggio, il più grande tra quelli che mi è capitato di vedere. La strada per alcuni chilometri corre tutta nel bosco e si presta bene per passeggiate tranquille. Il bosco è tenuto in ordine, molto pulito, a tratti pianeggiante e assai bello. È fatto perlopiù di abeti rossi, ma non mancano alcuni larici e qualche abete bianco. Si susseguono però alcuni siti in cui predominano i faggi che offrono un’ombra più densa, tanto da creare qualche passaggio nella penombra, a tutte le ore, e un terreno buono per i funghi. Non manca la promessa dello spettacolo autunnale quando i faggi cambieranno colore. Avendo avuto occasione di percorrere ripetutamente quella strada, anzi di andarci di proposito in più occasioni, avevo notato da tempo quel faggio notevole per grandezza: ampia la circonferenza del tronco alla base, grande l’altezza, straordinari la diramazione dell’albero e lo sviluppo dei rami stessi che non si possono facilmente contare, spazioso il terreno coperto dal faggio, dove di anno in anno si sono depositati tanti strati di foglie, tanto che ora non vi cresce un filo d’erba.
Sono passato di là anche ieri sera e mi sono fermato. Ho richiamato alcune impressioni che in passato aveva suscitato in me la vista di quella pianta un po’ eccezionale. La fantasia infantile, risvegliatasi improvvisamente, aveva rivisto Assalonne, il figlio di Davide, che durante una battaglia era rimasto impigliato con la folta capigliatura tra i rami fitti di una quercia, diventando facile bersaglio delle frecce degli inseguitori. Un’altra volta avevo fatto un calcolo sommario di quanta ottima legna da ardere avrebbe fornito quel faggio. Avevo anche pensato a quanto sole sarebbe arrivato su quel terreno che avevo trovato sempre bagnato e un po’ difficoltoso per l’avvio dell’automobile. Ieri sera non ho pensato a null’altro che al faggio, rimanendo a guardarlo e permettendogli di parlare. Sì, perché le cose parlano: basta saperle ascoltare. Stava scendendo il tramonto, che è l’ora magica per il bosco dove la luce letteralmente gioca. Il terreno sperimenta già una semioscurità che contrasta con le cime degli alberi che raccolgono l’ultima luce della giornata. I raggi del sole calante penetrano obliquamente tra gli alberi creando effetti piacevoli: lì illuminano un tronco di abete bianco o di faggio regalandogli una lucentezza particolare; dall’altra parte scendono su un vecchio ceppo ricoperto di muschio di cui ora risalta il verde intenso; illuminano direttamente un ramo isolato evidenziando il tremolio delle foglie mosse dalla brezza vespertina; pare che giochino a nascondino tra i fusti più alti e dritti. Le cose parlano, raccontano, istruiscono. Così quella ferita lasciata sul tronco del faggio da un grosso ramo che si è spezzato racconta di una grande nevicata che ha vinto anche la resistenza del faggio. Una cicatrice che corre per tutta la circonferenza creando un rigonfiamento uniforme, narra di quella volta che è stato stretto da una fune di acciaio per tirare a strada il legname che era stato tagliato più in basso.
Ma è poi vero che le cose parlano? San Tommaso d’Aquino, il principe dei teologi cristiani, ne era convinto. Interrogato dal suo segretario che aveva scritto sotto dettatura tante opere di filosofia e di teologia: «Maestro, chi ti ha insegnato tutto quello che sai?» aveva risposto: «Fra Guglielmo, quello che so mi è stato insegnato dalle cose, perché le cose non sanno mentire». Tommaso parlava in latino e non ha detto propriamente «le cose», ma ha usato un termine che si potrebbe anche tradurre: «la realtà». Però con questa traduzione si rischia di perdere quanto Tommaso considerava nelle cose stesse: sono sempre singolari e vanno considerate una per una – soprattutto le persone – al contrario delle idee che sono generali. Diciamo dunque che quanto è reale ha voce. Facciamo l’esempio del nostro corpo. Il corpo corre più della mente, nella conoscenza anticipa la ragione e possiede una meravigliosa pedagogia che prepara l’incontro con l’altro. Se provo gioia il mio corpo – cominciando dagli occhi e dalle braccia – la esprime; se sento che si conclude un’attesa, saranno le mie gambe a correre mentre la sorpresa verrà raccontata dalla mia faccia; se sono pervaso da contrarietà, amarezza, risentimento, rabbia o addirittura da odio, la rigidità del mio corpo, le smorfie del mio viso e il rossore anticiperanno qualsiasi parola; la paura verrà denunciata dal tremore, dal sudore e dai gesti impacciati. Nell’incontro con Dio, inginocchiandosi, alzando le mani o congiungendole, il corpo prega prima delle parole e del cuore. Davvero il nostro corpo anticipa molto. Anche nella sua differenza maschile e femminile ha tanto da istruirci, dimostrando la verità enunciata da San Tommaso: «Le cose mi hanno insegnato tutto perché non sanno mentire». Bisogna ascoltarle, distinguendo il loro messaggio dalle nostre interpretazioni, restando umili e insieme fiduciosi: la verità non è irraggiungibile e non è lontana. Le cose possono metterci d’accordo facendoci vedere che non è umano e neppure sostenibile a lungo, lo scetticismo che ci fa ripetere: «Io la penso così; tu ritieni vero il contrario, ma tutti abbiamo diritto di tenerci la nostra opinione». È possibile trovare un accordo su ciò che è semplicemente vero.
Il grande faggio mi invita a guardarlo, misurarlo, ascoltarlo e a fidarmi di lui perché la lunga storia di cui è testimone è vera. Adesso, come un vecchio, attende solo qualcuno che abbia voglia di ascoltarlo.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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