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Orme

di Luigi Del Favero

La neve a questa quota è stata ripetutamente annunciata e tuttavia lo spettacolo che essa presenta è inaspettato e bellissimo. La temperatura bassa e il vento che pare giocare, danno il loro contributo alla miglior riuscita, portando la neve in ogni direzione, aiutandola a penetrare tra i rami, anche quelli più fitti degli abeti e poi fissandola su ogni appiglio.
Arrivando ad Arabba per la Messa del sabato sera, ritrovo quel qualcosa di infantile che rinnova una sorta di gioia antica che nelle ultime stagioni mi era rimasta estranea. Ora lo capisco: la difficoltà a condividere sensazioni e gioia con mia madre che mi aveva insegnato a cogliere ogni particolare, mi avevano reso davvero estraneo a cose che avevo sempre atteso e amato. C’è una conferma della verità che ci istruisce sulla natura della gioia: se non è condivisa, ci scappa immediatamente dalle mani e si dilegua. Condivisa invece, si moltiplica.
Tutto è al proprio posto! Al tramonto l’abitato è come invaso dai gracchi alpini che affollano chiassosamente i rami del sorbo selvatico, carichi di bacche superstiti, per cercare poi appoggio sui tetti con l’attenzione di occupare i comignoli. Neri come sono, i simpatici gracchi non temono di sporcarsi e godono del calore che lì si può godere. Il suono della campane e ogni altro rumore giunge attutito; il traffico è molto lento e l’oscurità pare anticipare il proprio orario, che a febbraio si è già sensibilmente dilatato.
Mentre mi reco in chiesa ‐ sono qui per questo ‐ guardo dove metto i piedi. È cosa necessaria particolarmente in questa strana stagione nella quale non c’è stato l’allenamento che crea familiarità a camminare, come anche a guidare l’automobile, sulla neve. È il momento in cui la neve scende abbondante e non è ancora stata spazzata. Sono incuriosito dalle orme che conducono in chiesa e mi accorgo che sono numerose e varie per grandezza, tali da documentare il passaggio di bambini e di adulti, di sportivi che indossano gli scarponi da sci e di anziani che lasciano una traccia più leggera. Quelle orme parlano e invitano ad entrare: già altra gente ha percorso il cammino e ha come aperto un sentiero, mostrando una direzione.
Io mi guardo attorno e penso a cosa possono dire queste orme così ben leggibili alla tanta gente che in questo momento si aggira nella piazza. Sono sciatori che rientrano dalle piste, vacanzieri che scendono ora dal pullman, famiglie che occupano con i bambini l’ora di attesa della cena in albergo. Prestando l’orecchio, percepisco varie lingue, tra le quali distinguo il tedesco e l’inglese che si perdono tra il predominio di parlate dell’oriente: polacco, slovacco, forse russo. Sono cattolici? Sono cristiani? Sono credenti? Probabilmente molti non lo sono e non lo sono più, ma tutti vedono il chiarore che esce dalla chiesa, sentono il suono delle campane e vedono queste benedette orme che, da sole, documentano che qui c’è gente che ha un appuntamento in chiesa. Se non ci fossero le orme, arriverebbe il messaggio contrario che documenta la morte della fede. Qualcuno si affaccerà alla chiesa, entrerà, ascolterà, si porrà qualche domanda o semplicemente raccoglierà un’impressione.
Questa sera devo commentare la pagina del Vangelo dove è detto ai seguaci di Gesù: «Voi siete sale e luce; gli uomini vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre che è in cielo». Metto da parte gli esempi che ho preparato e indicando le nostre opere incaricate di parlare con efficacia, nomino proprio le orme nella neve. Pure queste sono opere buone che vengono viste e aiutano ad alzare lo sguardo, accendono una nostalgia, pongono una domanda, suscitano un desiderio, depositano un ricordo nei cuori oltre che nei telefonini che hanno fotografato tutto: qui c’è un popolo che crede, che prega, che si incontra. E chi può negare che per l’uomo europeo che non pensa più a Dio, almeno abitualmente, questo sia il messaggio più insolito e più necessario?
Un grande "spirito" che ci ha lasciato nei giorni scorsi ‐ tralascio il suo nome slavo perché è troppo difficile da ricordare con esattezza e da trascrivere ‐ ha detto negli ultimi tempi: «Non sono gli stranieri che giungono da noi a crearci i problemi: semplicemente, con la loro presenza, li mettono in risalto e ce li fanno vedere e noi prendiamo paura».
La sicurezza, la mancanza di lavoro e di casa, la difficoltà di convivere con il diverso? Questi problemi esistono certamente, però nominandoli non arriviamo alla radice. Il nostro vero problema è il vuoto, la mancanza di senso, la tristezza, il venir meno di speranza (e di bambini), l’assenza di Dio. Chi arriva tra noi se ne accorge subito e noi siamo costretti a prenderne atto in modo confuso e impaurito.
Vedessero quelle orme che aprono un sentiero, potrebbe cambiare tutto.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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